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La procedura di voluntary disclosure – recentemente riformata dal legislatore italiano ed oggetto di questo Speciale – è stata introdotta a seguito di una Raccomandazione della Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), avente il dichiarato scopo di cercare di raccogliere e fare emergere i capitali all’estero, riducendo così le spese di verifica e contribuendo al contrasto all’evasione. Numerosi sono i Paesi che hanno aderito ai suggerimenti dell’OCSE, attivando programmi di voluntary disclosure all’interno dei propri ordinamenti. Tali procedure presentano chiaramente delle specificità, anche in considerazione delle caratteristiche di ciascun sistema nazionale, ma risultano accomunate dalla volontà di favorire il rientro dei capitali non dichiarati (tramite il pagamento in misura piena delle imposte dovute ovvero in una percentuale diversa, a seconda dei Paesi) attraverso una sostanziale riduzione delle sanzioni previste (in Francia, ad esempio, la sanzione ordinaria scende tra il 15% e il 30%, mentre il Regno Unito e il Belgio riducono l’ammontare fino al 90%) e l’eliminazione delle conseguenze penali ordinariamente derivanti dalle condotte di evasione.
Come noto, le attività dell’OCSE tendono alla realizzazione dei più alti livelli di crescita economica alla luce dei concetti di sviluppo sostenibile, occupazione, tenore di vita, favorendo gli investimenti e la competitività e mantenendo la stabilità finanziaria. Questi obiettivi vengono perseguiti anzitutto attraverso la cristallizzazione di principi comuni e la predisposizione di intese e convenzioni; ma anche la raccolta e l’armonizzazione di dati, l’elaborazione di studi, nonché la definizione di linee guida e coordinamento delle politiche di cooperazione sono tipiche attività della Organizzazione avente sede a Parigi.
Con specifico riferimento agli strumenti normativi che l’OCSE ha a disposizione per incidere sulle legislazioni nazionali, è opportuno ricordare come essa abbia il potere di adottare sia Decisioni che Raccomandazioni. Mentre le prime hanno un’efficacia equiparabile a quella dei trattati – e, dunque, i Paesi membri devono adattare le proprie legislazioni a quanto in esse disciplinato–, le Raccomandazioni non hanno carattere vincolante.
Tuttavia negli anni più recenti anche gli strumenti sovranazionali non binding hanno assunto un’importanza notevole nelle politiche degli ordinamenti nazionali, anche sotto il profilo del diritto penale. Si pensi, ad esempio, all’influenza che l’Unione Europea ormai ricopre sull’azione del legislatore italiano nel settore penalistico, laddove sono ormai numerose le leggi che hanno trasposto nel nostro ordinamento svariate Decisioni quadro nonché, dopo il Trattato di Lisbona, alcune fondamentali Direttive, i cui diktat sempre più incidono sulle disposizioni di diritto interno avente matrice marcatamente penalistica.
L’abbandono del “monopolio” del legislatore nazionale in tema di diritto penale e processuale penale ha inciso anche sulla recente disciplina delle c.d. procedure di voluntary disclosure che, come già accennato, sono state introdotte in Italia proprio a seguito di una Raccomandazione OCSE, e la cui operatività presenta importanti ripercussioni anche in chiave penalistica. Infatti, come sappiamo, l’espletamento positivo della predetta procedura ha il determinante effetto di escludere la punibilità per alcuni reati tributari nonché per le condotte di riciclaggio, reimpiego e auto-riciclaggio, se commesse in relazione ai predetti illeciti tributari.
Per il penalista diventa dunque sempre più determinante adottare una prospettiva di analisi ad ampio spettro, prestando attenzione nel proprio lavoro quotidiano non più solo a quanto accade nelle aule di giustizia e a livello legislativo in sede nazionale, ma volgendo altresì lo sguardo oltre confine.

Avv. Chiara Padovani

Pubblicato in LEGAL, Anno II/ N°12/ Maggio 2017